UN  FRATE  CAPPUCCINO  D’ALTRI  TEMPI
VISSUTO  AI  NOSTRI  GIORNI

(1)
P. Carlo  Patano  da Triggiano
(05.03.1913-21.06.1994)

di Fra Francesco Monticchio
Con fervore cappuccino e scarsa voce!

Con un dolce sorriso disse che ci aspettava.
Era P. Carlo Patano da Triggiano, il mio primo guardiano.

Ho conosciuto P. Carlo nel lontano 1959. Era il mese di agosto. Il giorno non lo ricordo. Io con gli altri miei  9 compagni, avendo finito il 5° ginnasio, eravamo stati destinati ad Alessano per entrare in Noviziato. Eravamo partiti da Giovinazzo in un antico pick-up coperto con un telone.  Eravamo in 10. Ci accompagnavano fra Cirillo Bombacino da Capurso, l’autista, e P. Gabriele Simone da Corato, il direttore del seminario di Giovinazzo.
L’ultima tappa prima di arrivare ad Alessano fu a Scorrano. Era di mattina inoltrata. Tra gli altri frati, che non ricordo chi fossero, incontrammo fra Giuseppe. Un fratello anziano. Lo trovammo in ginocchio appoggiato all’altare davanti al tabernacolo. La piccola folla di ragazzi e il loro chiacchiericcio sembrò non disturbarlo. Ad un certo punto sembrò emergere da una certa assenza da se stesso. Si girò e ci guardò. Capelli e barba arruffata: una figura d’altri tempi.


…un frate bassino, mezza età, pienotto,  faccia rotonda, serena, un sorriso sfuggente!

P. Gabriele e fra Cirillo lo salutarono e poi ci presentarono come i futuri novizi. Ci salutò e disse che avrebbe pregato per noi e si ritirò. Poi il direttore ci raccontò che quello era un santo frate, molto semplice, pregava sempre, non si era mai visto allo specchio e raramente il pettine aveva messo in ordine i suoi capelli o la sua barba. 


Io e i miei  9 compagni eravamo stati destinati al Noviziato di Alessano. Partimmo da Giovinazzo con un antico pick-up coperto con un telone insieme a fra Cirillo da Capurso, l’autista, e P. Gabriele da Corato.

Poi ripartimmo e dopo un’oretta arrivammo al convento di Alessano. Tirammo la corda del campanello e ci aprì un frate bassino, mezza età, pienotto, faccia rotonda, serena, un sorriso sfuggente sul suo viso, gli occhi chiari, trasparenti, lucidi, barba corta, rada, non aveva molti capelli, l’abito rattoppato, un “centopezze”, ma pulito, composto, ispirava un’aria di grande serenità. Ci diede il benvenuto. Con un dolce sorriso disse che ci aspettava. Era P. Carlo Patano da Triggiano, il padre guardiano del convento.


Quell’abito pulito e rattoppato a me e ai miei compagni faceva una certa impressione…

Era la prima volta che lo vedevo. Il nostro direttore poi ci spiegò che lui sarebbe stato il nostro primo guardiano. «E’ un frate molto dolce, disse, non lo sentirete mai gridare, vi parlerà sempre sotto voce. E’ un frate molto buono, ne sarete contenti!»
Lo ebbi come guardiano tutto l’anno del noviziato, più qualche altro mese finché rimasi ad Alessano.
Quell’abito rattoppato lo portava tutti i giorni certamente in convento, ma forse anche quando usciva per qualche predicazione… ma non ne son sicuro.

Durante il noviziato era proibito alzare lo sguardo su persone o cose e poi vivevamo in un’ala del convento separata dalla fraternità per cui questa notizia non mi è facile da confermare. Però quell’abito pulito e rattoppato a me e ai miei compagni faceva una certa impressione, mi pungolava cuore e fantasia: perché solo lui veste così?

Me ne resi conto quando, essendo lui il mio confessore, per la prima volta entrai nella sua cella per confessarmi. Mi sembrava la cella degli antichi cappuccini, quelli della “Bella e santa riforma” che si vede nelle acque forti degli antichi libri che descrivono la vita e gli usi dei primi frati cappuccini: le pareti della cella bianche e nude, un tavolino, due sedie, un pagliericcio, un crocifisso, un quadro della Vergine Maria, qualche libro e i quaderni dove puntualmente scriveva le sue prediche che “recitava a memoria” al popolo di Dio, con fervore cappuccino e scarsa voce!

Allora ero troppo giovane e, novizio quale ero, non potevo capire quel suo modo spartano di vivere, qualche volta mi sembrava di uno squallore unico. La sua sobrietà nell’uso delle cose, la sua povertà ed essenzialità le compresi molto tempo dopo quando ebbi la possibilità di confrontare la sua vita con l’ideale francescano di una povertà di cose e con la libertà del cuore che essa dona.

Era il mio confessore. Da lui ho imparato in senso della misericordia, la bontà e la dolcezza dell’ascolto, la parola di conforto e di pace, la pazienza, il silenzio, la discrezione e il sostegno del confessore, il discernimento, la saggezza dei suoi suggerimenti nei momenti difficili e di sconforto.
Passati i primi mesi di entusiasmo, la vita da novizio e gli orari del noviziato cominciavano ad essere troppo esigenti per ragazzi di 17/18 anni: la recita del mattutino alle ore 01.00 in piena notte, la mattina alle 5.30 la sveglia, i lunghi tre quarti d’ora di meditazione nella penombra di due piccole lampadine d’inverno e, d’estate, con le finestre tappate da oscure tende… Inevitabilmente tutto questo conciliava il sonno!


Io stesso ho ricevuto tante confidenze che avevano fatto tesoro dei suoi consigli, andavo a fare animazione umana e cristiana nel quartiere.

Il mio posto purtroppo era proprio davanti a P. Carlo. La testa penzolava. E P. Carlo con serenità, senza minacce o solenni sgridate, semplicemente mi batteva due o tre colpettini sulla spalla e mi bisbigliava: «Non dormire!» Quanto gli permettevo di meditare ogni mattina, se per tre o quattro volte mi bussava sulla spalla, quando il sonno mi tramortiva… non lo so! Ma lui era imperturbabile, comprensivo, mai un commento negativo, mai una impazienza, mai un rimprovero!

Un altro aspetto della sua personalità cristiana e religiosa è quello che in gergo fratesco si indicava come “regolare osservanza” e cioè quella attenzione estrema e scrupolosa dell’osservanza delle norme e dei comportamenti che facevano di un frate qualunque un buon frate. Veramente questo suo essere ligio al silenzio a tavola (egli dispensava dal silenzio solo la domenica a mezzogiorno e alle feste comandate);


L’ azione pastorale di P. Carlo era stata molto incisiva, particolarmente nel rione di Torre Tresca

alla preghiera che si faceva dopo pranzo partendo dal refettorio e processionalmente si andava in chiesa recitando il “Miserere” e cinque Pater, Ave e Gloria con le braccia alzate (cosa di tutti i giorni, anche le domeniche ed eccetto i giorni di solennità), e a tante altre cose, come la disciplina nei giorni dispari della settimana fatta con una catenella e l’accusa delle colpe a refettorio tre volte a settimane prima del pranzo, per me giovane novizio, come pure per i miei compagni, era qualcosa di pesante e noioso. Ma la maniera in cui ci proponeva tutte queste pratiche e come visibilmente le viveva e quello che traspariva dal suo volto, mi facevano andare oltre alla sensazione di rigorismo di una noiosa ripetitività.

La sua severità era molto umana, esprimeva quasi un suo bisogno di preghiera e forse un sincero pentimento per qualche piccola golosità concessasi a refettorio o per una di quelle sette piccole cadute del giusto della Bibbia (Pr 24,16). La sua osservanza non era scrupolosa e neppure ritualistica, non dava l’impressione di fare le cose tanto per farle e neppure di un’osservanza per se stessa. Il suo bisogno di preghiera lo si leggeva in viso, vivere l’osservanza delle regole era per lui un modo di essere e di vivere la sua vocazione francescano-cappuccina secondo i parametri del suo tempo.     
Finito il noviziato lo perdetti di vista. Solo seppi che per circa due anni era andato in Canada per assistere gli emigranti.

Parroco a Santa Fara.
Quotidianamente tra gli abitanti di Torre Tresca


Ma quando, studente di teologia, arrivai a S. Fara nel 1964, la parrocchia era ancora piena della sua presenza. Qualche mese prima era partito per la missione del Mozambico. Non so per quanti anni è stato parroco a S. Fara. Certo è che la sua azione pastorale era stata molto incisiva, particolarmente nel rione di Torre Tresca. Torre Tresca era un insieme di capannoni militari, rimasti in piedi dopo la seconda guerra mondiale ed erano stati occupati da tante famiglie sfollate nell’immediato dopo guerra.

Mons. Enrico Nicodemo insedia P. Carlo a Parroco di S. Fara

Si era creato un ambiente ambiguo, degradato, sordido, povero, sporco, promiscuo. Era una periferia abbandonata a se stessa, lontana dal cuore di una città ricca e operosa quale era Bari, una riserva per una manovalanza di illegalità. Il rione viveva di notte con un via vai di macchine che andavano e venivano per trasportare un commercio sordido.

Quei capannoni erano il sito della presenza giornaliera di P. Carlo e del suo apostolato. Tutti lo conoscevano. Tutti aspettavano la sua carità fattiva e discreta. La sua visita alle famiglie era attenta, capace di vedere e comprendere le crepe di una società condannata ad essere corrotta. Forse quelli furono gli anni più intensi e difficili dell’esercizio del suo sacerdozio. C’era da ricostruire il tessuto sociale molto sfilacciato.

I suoi silenzi, il suo rispetto per gli strappi sociali, la serenità del suo ascolto, i consigli sereni e le sue catechesi calde e infuocate delle sue prediche hanno aperto la speranza e la voglia di cambiare direzione alla propria vita per tante famiglie. Io stesso ho ricevuto tante confidenze da parte di persone che avevano fatto tesoro dei suoi consigli, quando la domenica, con altri miei compagni si andava a fare animazione umana e cristiana in quel quartiere.


Tutti aspettavano la sua carità fattiva e discreta.

Si può caratterizzare così la sua azione pastorale e la sua presenza cristiana: eleganza, comprensione, benevolenza, longanimità, pazienza, umiltà. Insomma una santità senza miracoli, una santità feriale di un umile frate cappuccino, un uomo di Dio, semplice, santamente ingenuo e zelante.   


Quando, studente di teologia, arrivai a S. Fara nel 1964, la parrocchia era ancora piena della presenza di P. Carlo.

Fra Francesco Monticchio